Remorques 10 giugno 2020 Dopo aver scritto il…

Remorques 10 giugno 2020

Dopo aver scritto il post “Trionfi e Lamenti” sul 14 giugno 1940, mi è venuto desiderio di sapere cosa fosse accaduto 88 anni fa. Lo so, a volte esagero con la curiosità. Ma mi dico, ci sarà una ragione, che la ragione non comprende, per queste domande. E così ho interrogato wikipedia. L’attenzione é caduta sui nati famosi del 10 giugno 1932. Tra di loro spiccava, sola donna vivente, l’attrice Catherine Simone Henriette Marie Renaudin, vedova Rich, nata a Parigi, nipote di Maxime Renaudin. Nella sua filmografia brilla un film di Bertrand Tavernier “Captaine Conan”, tratto dall’omonimo libro di Roger Vercel. La storia di un sopravvissuto, male, alla guerra nei Balcani.

Roger Vercel, studente ventenne di letteratura, finisce nell’inferno della I guerra mondiale. Si salva, con danni alla vista, rimargina le ferite dell’anima (la storia di Captaine Conan é parte di questa dura esperienza), e scrive, scrive bene, soprattutto di mare. Da un libro in particolare, Remorques , viene tratto un film con Jean Gabin.

Remorques è un film d’amore sull’Amore, profondo, violento, crudo. I sentimenti vi sono espressi frontalmente con, quale unico décalage, una poesia sarcastica che denuncia l’infelicità sfidandola – scrive Paul Vecchiali.

Il film cominciò ad essere girato nel 1939, ma subì un’interruzione nel giugno 1940, quando, all’inizio dell’occupazione nazista, il suo produttore Joseph Lucachevitch dovette rifugiarsi negli Stati Uniti. Fu completato rocambolescamente il 2 settembre del 1941.

Il libro, e qui viene il bello, é lo stesso di cui racconta Primo Levi, in fondo a “Se questo è un uomo”. Vale dire è l’unico libro che Egli ebbe modo di leggere, in preda alle febbri, ad Auschwitz, in infermeria, la notte prima della liberazione. Gli fu lasciato da un medico greco, che nell’abbandonare il campo, insieme ad una moltitudine (?) di internati, in gran parte sommersi nel gelo dell’inverno tedesco, lo apostrofò in questo modo: “Tieni, leggi italiano. Me lo renderai quando ci rivedremo”.

Se dunque ieri scrivevo del primo giorno di Auschwitz, oggi mi trovo a ritornare sull’ultimo. Ancora una volta compaiono nel mio post la Francia, un Italiano, Auschwitz. Misteriosa é la vita, e le sue trame, oltre ogni immaginazione.

Il libro Remorques é stato tradotto in italiano da Alice Volpi per la casa editrice Nutrimenti e pubblicato con il titolo Tempesta . Non vedo l’ora di leggerlo.

Roger Vercel

10 giugno 1940

Trionfi e Lamenti

Il 10 giugno 1940 Mussolini annuncia dal balcone di Piazza Venezia la dichiarazione di guerra alla Francia e alla Gran Bretagna, mentre la Norvegia si arrende ai tedeschi. Pochi giorni dopo, la mattina del 14 giugno 1940 i primi reparti della Quarta armata della Wehrmacht occupano Parigi. E’ l’apoteosi del regime hitleriano. Nello stesso giorno n. 728 prigionieri politici polacchi, provenienti dalla prigione di Tarnow, vengono internati, per il periodo di quarantena, nel Campo di concentramento e quindi centro di sterminio nazista tedesco di Auschwitz – Birkenau.
Tra i deportati molti giovani catturati sul confine polacco meridionale mentre tentano di raggiungere in Francia l’Armata polacca da poco formatasi e uomini politici, intellettuali, sacerdoti, ebrei arrestati in quella primavera.
Il 18 giugno 1940 Charles De Gaulle lancia da Londra un primo appello alla resistenza contro i nazisti e il nuovo primo ministro britannico Winston Churchill dà voce, con uno straordinario discorso, all’indomabile animo del suo popolo, e lo guiderà con incrollabile determinazione fino alla vittoria, in quel momento impensabile. A posteriori la coincidenza del 14 giugno, tra il Trionfo di Parigi ed il Lamento di Auschwitz sembra prefigurare il futuro rovescio delle sorti.
Nel mezzo ci saranno milioni di vittime. C’è tanto da imparare dalla Storia. Restiamo umani.

primi deportati polacchi del 14 giugno 1940

Nel Cantico dei Cantici lo spazio é un…

Nel Cantico dei Cantici lo spazio é un santuario animato. Piante, animali, città, valli, colline, montagne, sono un’estensione degli sposi. Il loro amore tutto comprende. Nulla lascia fuori. Ed é vivo, fertile, fisico, sensoriale, spirituale, consistente, coerente, santo. Un giardino profumato di nardo, mirra, incenso, balsamo, cinnamono , all’ombra di cipressi, cedri, palme ed alberi di Cipro. Un frutteto di meli, fichi, vite, melograno, datteri, noci, che non manca di latte, miele e zafferano, mentre lo sguardo si abbevera di gigli, narcisi e rose di sharon, tra cardi ed aloe. Una valle dell’Eden é lo spazio degli Sposi.

Diario

A fine estate, il piede ristabilito, mi è finalmente possibile nuotare.
Nuoto al mattino presto, in acque trasparenti, con gratitudine, a filo d’acqua, fino alla boa bianca, come d’abitudine. Nel tempo d’agosto ho avuto modo di riconsiderare ogni cosa lasciata andare per il verso sbagliato, ritrovando una condizione di pace interiore e fiducia nella pratica.
Tanto è l’impegno e la risolutezza che metto in essa da bastarmi quasi il solo respirare. Il tornare a quell’intimo, grato respiro di vita. Quasi che le mie narici di creta ricevessero istante per istante il soffio che mi anima.

Siamo rimasti qualche ora in riva al mare…

Siamo rimasti qualche ora in riva al mare, in ascolto dell’incessante rimescolio dell’onda, del fitto ordito di parole, delle voci giovani e allegre che saltellano nell’acqua. Siamo rimasti fino a che non si è spento il colore della sabbia e si è raccolta in un solo raggio l’ultima luce.
Un aereo solca il cielo d’occidente e dinanzi ad un perfetto sole rosso giapponese, s’invola verso nord.
Le dune hanno un aspetto ragguardevole, delicato e al tempo stesso ispido di arbusti .
Brontola intanto lo stomaco, alle prese di un fritto di calamari, gamberetti e moscardini.

Aprire lo sguardo

Negli ultimi giorni mi è capitato di vedere “L’uomo che verrà” e di leggere “La variante di Luneburg” : due opere ben fatte che mettono a fuoco la ineluttabilità della sofferenza umana, un cerchio al quale non è dato fuggire, se non sul piano della speranza. Ma la natura ha in serbo sempre un’altra primavera, così l’umanità. Ogni volta è lecito ricercare  un nuovo inizio. Posso scegliere, ora, di non causare sofferenza, di lasciar andare la sofferenza, di imparare dalla sofferenza. Impariamo ogni volta che torniamo attenti, aperti, dialoganti. Ogni volta che sospendiamo il giudizio facciamo un passo che ci avvicina alla nostra umanità, imperfetta e colma di meraviglia. Cosa temiamo? Aprire lo sguardo al dolore, nostro e  del mondo, è necessario per riconoscerci, per essere insieme, per scegliere di fare ciò che responsabilmente è bene fare. Alle strette, mi riprometto continuamente di esserci, di spalancare la prigione dell’io e respirare come un faggio ben radicato. Si può imprigionare lo spirito? Può alcun orizzonte contenerlo?

Ho avuto modo di visitare gratis per di…

Ho avuto modo di visitare (gratis per di più) la bella mostra "Il Potere e la Grazia. I Santi patroni d’Europa", che accoglie tra l’altro, in un confronto più unico che raro, quattro dipinti (di Tiziano, Andrea del Sarto, Caravaggio e Leonardo),  raffiguranti San Giovanni Battista. Si tratta di opere esemplari per la loro molteplicità  di rappresentazione della risposta dell’uomo al divino. Il Battista adolescente di Caravaggio e Andrea del Sarto, nonchè  il roccioso vecchio del Tiziano, svaniscono dinanzi all’ineffabile, giovane  sorriso leonardesco, che emerge dall’oscurità circostante carico di luce e di pace. Una mano sul cuore, l’altra protesa ad indicare con l’indice un sovrannaturale oltre la realtà apparente, incorniciata nei fisici confini della tela. Il Battista di Leonardo, forse il suo ultimo dipinto, sembra ammaestrarci profeticamente sulla via da seguire. Pare suggerirci di metterci in ascolto, in serenità e fiducia, nelle profondità del cuore (del Sè), del divino mistero dell’uomo che l’oscurità rischiara. La mostra, articolata in dieci sezioni,  si chiude con le seguenti parole, che sottoscrivo interamente: "si tratta di riconoscere la dignità della persona umana,nella cui coscienza nasce in libertà e secondo ragione la risposta dell’uomo a Dio, che nessun potere può indurre e impedire".  In questa assoluta libertà umana, di scegliere la via del ritorno o dell’abbandono, germoglia la creazione artistica, fiorisce la santità, si edifica il potere.

Curioso Il meccanico dai capelli rossi porta scritto&nbsp…

Curioso.
Il meccanico dai capelli rossi porta scritto  sulle spalle “Tempesta”. 
Compare mentre racconto a D. la trama del libro di Maurensig “La tempesta. Il mistero del Giorgione”, che sto leggendo da qualche giorno. In un modo o nell’altro il tema della tempesta  ritorna alla mia attenzione, come una tranquilla presenza che chiede d’essere ascoltata. Ieri l’altro ho assistito alla proiezione del film dei fratelli Coen “A serious man”. Nella scena finale un uragano si profila all’orizzonte. In primo piano giovani adolescenti attendono attoniti. L’analogia della scena filmica con la tela del Giorgione è notevole, solo che lo spazio umano e lo sfondo minaccioso della natura appaiono nel fim più ravvicinati. L’attonito, misterioso istante che viene, attraverso il varco scenografico del mondo apparente, ammutolisce il vivente manifestando l’impossibilità d’essere colto, conosciuto, immaginato nel suo evolvere. Al tempo stesso, qui, ora, quel manifestarsi scanzonato, sulla tuta blu d’un meccanico, a chiare lettere, sbriciola la minaccia in una onesta scrollata di spalle.
Finiamo di bere il tè ed usciamo.
Piove appena.

&nbsp Le ruote del treno fischiando s’inchiodarono e…

 Le ruote del treno fischiando s’inchiodarono e di colpo la banchina fu invasa da uomini e donne d’ogni età, ognuno con il suo carico, a mano, in spalla, trascinato, spinto, pesante, ingombrante. Sotto il cappello viola, in un volto minuto e scuro di donna,  occhi agitati da una sottile brezza interiore cercavano di penetrare la folla, di separare l’uno dall’altro, di vedere nel mucchio. Così, sbriciolando la pesantezza e ruvidezza del  ‘reale’, cercavano  il confine, il punto, dove il ghiaccio si assottiglia e rompe e  luce ed ombra tratteggiano sottili sfumature del significato. Così attendevano di scoprire cosa sarebbe accaduto.

Bar S Callisto in Roma in attesa di…

Bar S. Callisto (in Roma), in attesa di Isabelle nel primo pomeriggio.
In via del Moro ho scovato una vecchia cioccolateria d’arte.
In via della Scale l’antica farmacia S. Maria della Scala.
Dopo aver citofonato (tre volte) mi è venuto ad aprire un (quasi) anziano Carmelitano Scalzo, dal capo grigio-chiaro e gli occhi barricati dietro occhiali sospettosi e stanchi. Ci siamo accordati sulle modalità per accedere, in visita, con una ventina di ragazzi, all’antica Spezieria.
Ho in animo di sollevare il coperchio della grande  coppa dell’ultima Teriaca e respirare a pieni polmoni.

Sulla magica retta del paesaggio umano raccolti allineati…

Sulla magica retta del paesaggio umano, raccolti, allineati, i saggi sostengono le montagne, con i loro cuori puri, vuoti germogliatori di mondi nuovi. Nulla più che un formicaio la città eterna, nel nascente lucore dell’alba. Quassù un multiforme concerto d’erbe, alberi e uccelli.
Profumano le pesche, non colte. Oscillano le scure cime dei cipressi al fiato della luna. Ripiego le mie ossa e ancora m’addormento, al nuovo giorno.

E cos’è più necessario che l’essere semplicemente e…

E cos’è più necessario che l’essere, semplicemente e con dignità, se stessi?
E raccogliersi in ascolto, senza pretese nè giudizi, e stare con la realtà che ci comprende, oltre il fragile sguardo? Come tacere? Ovunque è sofferenza e bellezza. Per cosa agita il tiranno la sua ombra? L’insanguinato calpestio dei potenti riaffiora di nuovo con orrore e sotterra sogni di carne nelle fosse e getta madri e padri nello sconforto. Perchè succede? Da dove rigenera questo male? Mi chiedo in che modo sottrarci alla complicità del consumo di quell’oro nero appestato dalle guerre. Dormiamo un sonno terribile, sull’orlo dell’inferno quotidiano.

Disserrata l’oscurita’ con inusitata bellezza l’abile coltello dell’alba…

Disserrata l’oscurita’ con inusitata bellezza, l’abile coltello dell’alba sgrana pieghe di materia, muta l’istante in luce viva, da forma al respiro del creato.
Garrule voci punteggiano la trama dell’isola con freschi svolazzi.
Colpi di vento e di luce irrompono. Lievita il bianco.
Riaffiora il senso incorporeo della pietra, nello sguardo, ora, leggera.
Passa oltre la brezza viva dell’alba. Passa oltre.
Addensano i corpi, abbandonati, monasteri petrosi attorno alla vuota essenza, all’assenza manifesta, aggrumati. L’ordinaria realta’ desiderante s’inoltra, ad occhi chiusi, sul nuovo giorno. Senza memoria.
Mentre un filo di coscienza ordisce gli atti ignoti che verranno. Cieca e’ la vista.

Per ore traccio segni su un foglio di…

Per ore traccio segni su un foglio di cartone. Sciolgo l’inchiostro lentamente sullo scisto, in poche gocce d’acqua. Immergo il pennello e mi lascio andare al silenzio. Lentamente compare l’impronta della mente, così com’è. In ansia, triste, indecisa, talvolta serena. I tratti dell’antico carattere si fissano uno accanto all’altro. E’ allora che il vento apre un varco immaginativo, dischiude le giunture dell’ideogramma, scompaginandolo dall’interno dinanzi ai miei occhi attoniti, finché la mano, mossa a commozione, ri-posa nuovi segni sulla carta. Frammenti di un mondo interiore sconosciuti e vivi. Così me ne prendo cura, come un naufrago dei suoi preziosi resti.

La tramontana ora scuote e secca le foglie…

La tramontana ora scuote e secca le foglie. Mi assorbe il carminio slavato delle mura. Rapito dal tempo, quello che manca e quello che resta, m’interrogo. Che farne? Sull’impiantito di larice si muovono passi lenti, premono sulla trama modulando una stridula voce di brigantino alla deriva. Imbarcato per sempre, alla volta di un infinito ritorno. Tra la via sacra e la nuova, incamminato, silenziosamente. Con zenzero e curcuma si strofina l’autunno, nuovamente profuma il sole di spezie, incendiandosi, sopra un cavallo al tramonto. Un barlume di luce, che difendo con il corpo, giorno dopo giorno. Quante volte è già successo?

Copiosamente piove tutta la notte Sul confine dell’alba…

Copiosamente piove, tutta la notte.
Sul confine dell’alba cerco rifugio.
Dai monti ammucchiati, al promontorio, all’arcipelago, fino alla nuda lama che separa solo mare e cielo: una grande falce è l’orizzonte e va mietendo ogni istante, ogni raggio, ogni pensiero.
Gocciola il ferro battuto della scala a chiocciola, gocciola tempo misurato sul nitido respiro.
Cosa resterà di queste pietre? Qualche frammento. Di noi neppure quelli. Preparo il tè.
Il bollore vociante dell’acqua apre le foglie ai loro amari ricordi di terra.
Ne assaporo le tracce, la storia fumante, scandita dai gesti.
L’ osservo compiersi, ripetutamente. Da un altro fuggevole istante.

Mi chiedi della pioggia Non me ne ricordo…

Mi chiedi della pioggia. Non me ne ricordo.
All’antico mare, da Alicante a Istanbul, i fianchi asciutti morde il libeccio, tutta l’estate.
Abbrusta nelle notti il canto ritmato dei grilli. Sfigura il volto alle montagne fino alla nera nudità.
E le ceneri addensano nuvole amare.
Agli occhi del cielo scorrono imprecanti fiumi di lava. S’attorcono brustoli di carne, dove appiccò il fuoco la miseria. Ogni tanto cade sabbia africana. Riflessi desertici del futuro, che avvampa alla porta, trafiggono gli occhi.
Mi chiedi della pioggia. Non me ne ricordo.
Ad oriente salpano vascelli di nubi immacolate.
Con speranza le osservo venire.

Intanto un vecchio dalle larghe orecchie a sventola…

Intanto un vecchio dalle larghe orecchie a sventola, la bocca aperta in una smorfia, coperto di una lisa maglietta a larghe fasce bianche e blu, giungeva ora oscillando sui due piedi, con i calzoni che gli calavano dai magri fianchi, lamentoso, spinto dalla grassa voce e dal bastone del suo sorvegliante: una donna grossa e autoritaria, che lo conduceva a sedersi accanto agli altri.
Seduti contro il muro color vinaccia del fabbricato, stavano una donna ancor giovane, oltremodo sdentata e un vecchio bofonchiante. Entrambi li accolsero con un sorriso esageratamente aperto, e frustarono l’aria intorno con incomprensibili parole di benvenuto.

La proprietaria una quarantina d’anni infagottati in un…

La proprietaria, una quarantina d’anni infagottati in un corpo pingue, dolce nei movimenti, venne a portarmi la granita di caffè. Lo sguardo impenetrabilmente triste, i gesti lenti e precisi, sembrò non accorgersi della varia umanità che si era radunata lungo il muro. Avanzi di carni maciullate dal tempo, aspre nel linguaggio e dolenti nell’animo, s’intrattenevano pubblicamente, scambiandosi opinioni ed improperi sotto un cielo oltremodo benevolo. Continuavo a passare in rassegna i nasi adunchi, le mascelle sgangherate, i corpi piegati, le gambe gonfie e nere, indurite dai nodi varicosi, accorgendomi che la ripugnanza andava lasciando posto ad una viva compassione.