Diario

14 febbraio 2009

Nel tardo pomeriggio mi è venuto l’impulso di fare due passi. Mi sono avviato così per la strada lastricata d’inverno, le guance presto ferrate da una gelida tramontana. All’altezza del mercato, solo il banco dei fiori era aperto. Un desolante puzzo di pesce marcio. Cielo plumbeo.

Mi accompagnava, nel cammino, il pensiero di Bulgakov, la sua prigioniera sofferenza d’uomo di lettere, sotto un regime miserabile di burocrati. Il suo gesto di ribellione nei confronti di Stalin nel chiedere, disperato, l’espulsione.

Non c’è via di scampo alla società. Ogni giorno inciampo negli anni trenta, per un verso o per l’altro. Vuoi S. Weil, nel suo Diario di fabbrica, oppure Gadda, nelle pieghe, o meglio nelle visceri, dell’eterna città. Povertà, fatica, dolore, sembrano riaffiorare dal passato, insieme ad una crisi economica che inacidisce ogni giorno di più.

Cammino. Considero con cura le mie debolezze, mentre ripenso al tempestoso dicembre, alle solitarie giornate di libertà. Tutto può starci. Tranne rinunciare alla verità. Mi pesa non percepire il ritmo della vita, la chiara, vicina visione dell’umanità. Mi pesa il grigio, indefinito respiro, indistinguibile dal flusso di tempo in cui annego, cieco e sordo, ormai.

Quantunque la giornata sia stata dolce, ed abbia avuto sapore a letto come a tavola, e sia stata nutriente per lo spirito e l’intelligenza, la sensazione prevalente è di vuoto a perdere. L’assenza dilata i suoi confini. Facile perdersi, quando si è persi. Non so più vivere nell’oscurità. Mi pesa il silenzio divino, più di quello umano.

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